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Il linguaggio della disabilità e il progetto di vita
Se dovessimo definire la disabilità occorre chiarire un aspetto fondamentale: la disabilità è una condizione e non una malattia e può essere congenita, quindi dalla nascita, o acquisita. E ancora, quando si parla di disabilità è opportuno evitare alcuni “errori lessicali” dietro ai quali si cela una visione della stessa che non è più attuale né politicamente corretta.
All’uopo è assolutamente da evitare l’atteggiamento pietistico, l’utilizzo di parole come “poverino”, il rivolgersi a un adulto chiamandolo ragazzo/a oppure cadere in stereotipi del tipo “la vita sarebbe una noia senza di loro” (riferito alle persone con disabilità ovviamente) o, ancora, “questi ragazzi sono il sale della vita”, cosa, per esempio, realmente accaduta al Festival di Sanremo quando il presentatore Carlo Conti, ospitando un gruppo di artisti con disabilità del “Teatro Patologico” di Roma (un progetto a cura di Dario D’ambrosi) ha adoperato queste locuzioni per presentare la loro performance artistica e culturale. Quindi, se è vero come è vero, che il linguaggio è la rappresentazione delle “idee”, ovvero della cultura che le esprime, detto in termini semiotici, evidentemente è la cultura che deve cambiare.
Un cambiamento in tal senso è già avvenuto negli anni ’90, quando l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha commissionato a una serie di esperti il compito di redigere una nuova classificazione della disabilità: la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, meglio conosciuta con l’acronimo inglese ICF, International Classification of Functioning, Disability and Health.
Con l’ICF, all’approccio medico prevalente (secondo il precedente manuale di classificazione ICDH) è stato introdotto l’approccio psico-sociale, che nel definire la condizione di disabilità, tiene conto anche delle interazioni dell’individuo con il suo ambiente e del contesto in cui vive, senza trascurare il fattore biologico, strettamente medico, che in passato, quando si adoperava l’ICDH, era l’unico aspetto di cui si teneva conto. A tal proposito, con l’ICF si può parlare di approccio “bio-psico-sociale”: il contesto sociale, in cui la persona vive, contribuisce a definire il funzionamento della persona e quindi la sua condizione di disabilità. E in riferimento al contesto ambientale si parla di “barriere” e “facilitatori”, intendendo rispettivamente quelli che sono i fattori che facilitano e/o ostacolano la persona nel suo divenire.
Da questa impostazione discende una importante considerazione, ovvero che la persona con disabilità non “è” la sua disabilità, ma “ha” una disabilità. Ciò significa che la disabilità può anche essere una condizione temporanea e non permanente e soprattutto che la persona non va identificata con la sua disabilità. In termini marxiani, la persona è la struttura e la disabilità è la sovrastruttura, dove la seconda condiziona la prima, ma non sono la stessa cosa.
Per cui se la disabilità viene meglio definita come un modo di essere condizionato anche dal contesto ambientale, ne consegue che modificando il contesto ambientale si può migliorare la qualità della vita della persona. Questo concetto è, a mio sommesso avviso, la base su cui si fonda anche l’UDL, ovvero l’Universal Design for Learning, che consiste, detto in soldoni, nel progettare ambienti di apprendimento inclusivi e flessibili in cui si cerca di dare a tutti le stesse opportunità, considerando anche i fattori ambientali, quali facilitatori dell’apprendimento. La disabilità, quindi, è un concetto “dinamico” e in quanto tale suscettibile di cambiamento. L’ art. 3 della L. 104/92 definisce la persona con disabilità “chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all’esito della valutazione di base”.
Con il D.L. n. 62 del 3 maggio 2024, attuativo della L. 227/2021, entrato in vigore a partire dal 30 giugno 2024, si è semplificato il sistema di accertamento della disabilità e soprattutto si è introdotto il concetto del “Progetto di vita”. Con il progetto di vita si cerca di attivare, attraverso la collaborazione con le associazioni che si occupano di disabilità, gli enti istituzionali e la persona con la sua rete familiare, quando esiste, un percorso che tenga conto di tutti gli aspetti della quotidianità e di tutti i progetti attuati, a partire dal PEI (Piano Educativo Individuale) fino all’importante aspetto del “dopo di noi”, a cui il progetto di vita cerca di dare risposte. Un iter legislativo che affonda le sue radici nella legge 328 del 2000, che parlava di “piano individuale”, giusto per fare un riferimento storico.
Per concludere, cambiare il linguaggio delle persone, quando si parla di disabilità, vuol dire anche cambiare la cultura della disabilità e dare attuazione alle leggi che tendono al raggiungimento dell’autonomia della persona e a migliorare la qualità della vita, perché anche una persona con disabilità possiede competenze, desideri ed emozioni che ha il diritto di realizzare e vivere appieno.
Infine, un ultimo accenno al fatto che l’Italia ha una normativa sul tema molto progressista e all’avanguardia, rispetto ad altri Paesi del mondo occidentale, ma per far sì che le leggi non rimangono solo inutili orpelli teorici, anche la “cultura” deve cambiare!
Prof. Riccardo Sasso
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